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Un Nuovo Sistema di valori

Per invertire il corso della storia è necessario intervenire, prima di tutto, sul piano culturale, affermando un nuovo sistema di valori. Perché molte delle facce del male oscuro che affligge l’Italia, hanno una matrice culturale. E’ anche su questo piano, pertanto, che, pur con tempi ed obiettivi di lungo periodo, bisogna iniziare a lavorare.

L’obiettivo è dare il via ad un grande cantiere cui lavorare tutti insieme, ciascuno per quanto di propria competenza: la politica, le forze sociali, i giovani, i mezzi d’informazione, la scuola, per affermare un nuovo sistema di valori civici.

Dobbiamo affermare un modello sociale basato sulla legalità, sul rispetto delle regole, sull’etica pubblica, intesa anche quale sistema spontaneo di controllo sociale, sull’orgoglio civico, sull’identità nazionale, sull’onestà che deve diventare comportamento premiante e premiato, per primo dallo Stato.

Bisogna cominciare a lavorare perché il bene pubblico torni al centro dell’azione della politica, completando la rivoluzione liberale che ha portato, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, a trasformare il Paese da un’economia rurale ad una grande economia industriale.

Quel processo è rimasto monco del secondo grande pilastro sul quale si costruisce ogni democrazia liberale che, assieme alla libertà economica e di mercato, si basa sull’esistenza di un sistema di regole, sul loro rispetto generalizzato e sulla loro condivisione sociale.

Una rivoluzione culturale
Ci aspetta una sfida da far tremare i polsi, perché questo obiettivo consiste in una vera e propria rivoluzione culturale. Ma ci possiamo riuscire se ognuno farà la sua parte. La politica, adottando norme che finalmente si pongano come obiettivo di punire i furbi e premiare gli onesti.

La scuola, rimettendo l’etica civica al centro del proprio insegnamento e contribuendo, con le famiglie, a creare una cultura diffusa della legalità e del merito.

L’informazione, diventando il cane da guardia non solo della politica ma di ogni forma di potere e di funzione pubblica.

Gli Stati Uniti, nei primi decenni del 1900, avevano problemi simili, sotto molti aspetti, all’Italia di oggi. Vi era una corruzione diffusa, e una funzione pubblica spesso collusa. Una criminalità organizzata dilagante. Un’identità nazionale sovrastata dalle tante identità di origine, in ragione di un paese nato dall’immigrazione. Uno scarso livello di rispetto delle leggi.

In pochi decenni, proprio con l’azione congiunta dello Stato, della scuola, delle famiglie e della libera informazione, gli Stati Uniti vinsero la loro battaglia e riuscirono ad affermare un forte senso civico e un forte sentimento di etica pubblica e di identità nazionale. Ce la possiamo fare anche noi.

Torno insistentemente sul concetto di etica pubblica perché è centrale. In Italia facciamo migliaia di leggi, istituiamo decine di migliaia di reati, prevediamo centinaia di migliaia di sanzioni, ma non ne caviamo un ragno dal buco. Perché non è solo con la minaccia della sanzione che si afferma la legalità ma creando prima, sul piano culturale, un’ampia condivisione dei comportamenti leciti e virtuosi, una condivisione talmente profonda che la loro violazione diventa oggetto di condanna sociale e questa condanna sociale comporta esclusione e disprezzo. Che sono due prezzi molto più salati da pagare di qualsiasi condanna che possa infliggere lo Stato.

Un esempio
Credo che nulla possa servire a spiegare quello che intendo quanto un esempio. Tempo addietro ho partecipato ad un convegno in materia di infortuni sul lavoro. Uno dei relatori era stato presidente della commissione lavoro della Camera. E ci raccontò che la commissione, durante la sua presidenza, decise di recarsi in Svezia, dato che in quel paese si registrava il più basso tasso di infortuni sul lavoro di tutta Europa. Lì incontrarono l’omologo di quello che, in Italia, sarebbe stato il presidente dell’Inail. Il quale alla domanda su come facessero ad avere così pochi infortuni sul lavoro rispose, piuttosto sorpreso, che era una cosa semplice. Che si erano limitati ad attribuire a tutte le imprese un bollino: verde per quelle in regola con la normativa antinfortunistica, arancione a quelle che non erano ancora totalmente in regola ma che stavano procedendo in quella direzione, rosso a quelle che non erano in regola. Non capendo bene, i nostri parlamentari chiesero cosa succedeva dopo l’assegnazione dei bollini, se vi fossero delle sanzioni, delle multe, dei processi o che altro. No, rispose questi. Non serve. Perché dei bollini veniva data diffusione pubblica e se un’azienda aveva il bollino rosso non c’era più nessuna pubblica amministrazione che ne comprasse i beni o i servizi. Non c’era più un consumatore in Svezia comprasse i beni prodotti da un’impresa con il bollino rosso, ed anche i lavoratori se potevano andavano a lavorare in un’altra azienda. Insomma, concluse lo svedese, se l’azienda non provvede da sola a mettersi in regola entro sei mesi non vende più, non trova manodopera ed è costretta a chiudere. Questo è un esempio emblematico di come una solida e diffusa etica pubblica possa più di mille leggi, leggine e regolamenti.

In una società dove oltre alla libertà di mercato si affermi anche questo sistema di valori si creano le condizioni per un’economia virtuosa, dove a prevalere siano le aziende migliori e non quelle con le migliori relazioni. Dove le aziende siano stimolate alla ricerca, agli investimenti, perché solo la qualità e l’innovazione dei loro prodotti ne determineranno l’affermazione sul mercato.

Solo in una società di questo tipo si creano le condizioni perché ad emergere, sia nell’impresa, sia nel lavoro ma anche nella pubblica amministrazione, siano i migliori, i più competenti, i più meritevoli. Non abbiamo scelte. Solo diventando una squadra che gioca tutta per vincere, mettendo in campo le sue forze migliori e creando loro spazio ed opportunità, reggeremo come sistema e riprenderemo a crescere. E solo riprendendo a crescere e reggendo l’urto della competizione globale potremo continuare a garantire il benessere di tutti attraverso uno stato sociale sempre più universale e garantire opportunità e tutele anche ai più deboli o ai meno dotati.

 

Il ritorno dell’Etica pubblica

L’Italia è nata con un gene sbagliato, perché non si è definita, al pari degli altri grandi Stati nazionali, come una collettività di individui che, condividendo storia, territorio, cultura, lingua ed aspirazioni, si erge a comunità statuale.

Sia chiaro, gli ingredienti ci sono quasi tutti, ma è proprio il quasi a fare la differenza. Mi spiego meglio. L’Italia è nata e con il tempo è diventata sempre più, non una collettività di singoli individui, ma la sommatoria di una miriade di aggregati sociali minori che non si sono sciolti nell’idea di nazione. Semplicemente, sono entrati nella nazione Italia, mantenendo tuttavia la propria identità, i propri interessi e i propri obiettivi.

In questo modo, l’aspirazione collettiva al bene comune, che di solito appartiene a ogni popolo, e che ne rafforza l’identità, lo spirito di patria, l’orgoglio nazionale, è da noi flebile al punto di apparire evanescente. Sempre soppiantata dal primato degli interessi parziali.

Il primo di questi aggregati è rappresentato sicuramente dalle associazioni che raggruppano e rappresentano le persone che svolgono la stessa professione o lo stesso mestiere. Da questo punto di vista è come se fossimo rimasti fermi all’Italia dei Comuni, delle arti e dei mestieri. Non c’è infatti in Italia professione o mestiere o semplice impiego che non si organizzi in corporazione. Ed ognuna di queste, grande o piccola che sia, si muove come corpo sociale autonomo e tenta costantemente di concertare con lo Stato le condizioni di massimo vantaggio per sé e per i propri aderenti. Non conta se questi vantaggi sono sostenibili dal paese; non conta se producono a livello complessivo utilità o disutilità sociale. Conta soltanto la difesa del particolare. E’ un corporativismo, quello italiano, che si spinge al limite della polverizzazione. Nel senso che non si ferma a macro-aggregati sociali o economici ma, all’interno di ogni categoria apparentemente omogenea, si fraziona ulteriormente in mille rivoli.

Oltre al corporativismo l’Italia resta il paese dei campanili, vissuti a loro volta quale un vero e proprio corpo sociale separato. L’appartenenza a una comunità territoriale locale è spesso percepita come più forte e nettamente prevalente rispetto all’appartenenza alla comunità nazionale. E così, allo stesso modo delle corporazioni, gli appartenenti alle varie comunità territoriali privilegiano il vantaggio locale su quello generale. Come conseguenza affidano la loro rappresentanza politica, al nord come al centro o al sud, non a chi gli garantisce di far funzionare meglio l’Italia, ma di portare più soldi a casa propria.

Non vedo una grande differenza, dal punto di vista dell’interesse generale, tra la logica clientelare di una parte della politica meridionalista, all’insegna del “prima gli amici” e quella, quasi etnica, del “prima i Veneti” del governatore leghista del Veneto, Zaia. Entrambe negano e contraddicono il concetto di bene comune che risiede sempre, invece, nel “prima i più meritevoli”.

Anche la famiglia, in Italia, tende a porsi come un corpo sociale portatore di interessi distinti e spesso configgenti con quelli della collettività. Non è un paradosso. La particolare centralità del ruolo della famiglia nel nostro paese, che pure ne costituisce senza dubbio un pregio e un elemento di straordinaria forza e coesione, tende, qualora non sorretta da un forte senso civico, ad assumere aspetti e comportamenti a volte antisociali.

Una concezione estremizzata dei legami familiari va a danno della capacità di associarsi e dell'interesse collettivo, e spinge a massimizzare unicamente i vantaggi materiali di breve termine della propria famiglia nucleare. La giustificazione etica di questo comportamento sta nel presupporre che, tanto, tutti gli altri si comportano allo stesso modo. Dove l'amoralità è relativa all'assenza di etica pubblica, all'assenza di relazioni morali a livello di collettività. Per intenderci, ancora una volta, è il principio per cui si condannano le raccomandazioni, ma solo quelle degli altri. L’evasione fiscale, ma solo quella degli altri. La violazione delle leggi, ma non la propria. Il tutto con l’autogiustificazione del: tanto fanno tutti così. Faranno anche tutti così ma, intanto, il paese va a rotoli.

Per questo deve essere chiaro che in Italia ogni grande riforma (economica, politica, istituzionale) sarà vanificata, se contemporaneamente non si avvia la madre di tutte le riforme: un enorme e decennale impegno collettivo di formazione culturale, del quale si devono fare carico famiglie, scuole, i grandi media, lo Stato e le Pubbliche Amministrazioni, che abbia come obiettivo l’educazione del Popolo Italiano nella sua interezza al primato del senso civico, o dell’etica pubblica, o del bene comune che dir si voglia.

Possiamo continuare a fare migliaia di leggi, istituire migliaia di reati, prevedere un’infinità di sanzioni, ma non ne caveremo un ragno dal buco. Perché non è solo con la minaccia della sanzione che si afferma la legalità ma creando prima, sul piano culturale, un’ampia condivisione dei comportamenti leciti e virtuosi; talmente profonda che la loro violazione diventi oggetto di condanna sociale e che questa condanna morale comporti esclusione e disprezzo. Che sono due prezzi molto più salati da pagare di qualsiasi condanna che possa infliggere lo Stato.

Ci aspetta una sfida da far tremare i polsi, perché questo obiettivo consiste in una vera e propria rivoluzione culturale. Ma ci possiamo riuscire se ognuno farà la sua parte.

La politica, adottando norme che finalmente si pongano come obiettivo di punire i furbi e premiare gli onesti. La scuola, rimettendo l’etica civica al centro del proprio insegnamento e contribuendo, con le famiglie, a creare una cultura diffusa della legalità e del merito. L’informazione, diventando il cane da guardia non solo della politica ma di ogni forma di potere e di funzione pubblica.

Gli Stati Uniti, nei primi decenni del 1900, avevano problemi simili, sotto molti aspetti, all’Italia di oggi. Vi era una corruzione diffusa, e una funzione pubblica spesso collusa. Una criminalità organizzata dilagante. Una identità nazionale sovrastata dalle tante identità di origine, in ragione di un paese nato dall’immigrazione. Uno scarso livello di rispetto delle leggi. In pochi decenni, proprio con l’azione congiunta dello Stato, della scuola, delle famiglie e della libera informazione, gli Stati Uniti vinsero la loro battaglia e riuscirono ad affermare un forte senso civico e un forte sentimento di etica pubblica e di identità nazionale.