Una società arretrata

L’Italia, per dirla con una metafora, soffre di una malattia genetica. E’ nata con un gene sbagliato, ci è convissuta ed è anche riuscita, nonostante questo, a crescere per molti decenni, portandolo dentro di sé. Con gli anni, tuttavia, le distorsioni sono diventate sempre più gravi ed evidenti; tanto che oggi - complice la crisi economica – la malattia è esplosa in tutta la sua drammaticità.

Mi riferisco al fatto che l’Italia non è nata e non si è definita, al pari degli altri grandi Stati nazionali, come una collettività di individui che, condividendo storia, territorio, cultura, lingua ed aspirazioni, si erge a comunità statuale.

Gli ingredienti ci sono quasi tutti, ma è proprio il quasi a fare la differenza. Non c’è dubbio che storia, lingua, territorio e cultura siano i pilastri del nostro stare insieme. Ma sono mancati due elementi essenziali: la collettività di individui e le aspirazioni comuni.

L’Italia è nata e, soprattutto, con il tempo è diventata non una collettività di singoli individui, ma la sommatoria di una miriade di aggregati sociali minori che non si sono sciolti nell’idea di nazione. Semplicemente, sono entrati nella nazione Italia, mantenendo la propria identità, i propri interessi e i propri obiettivi.

In questo modo, l’aspirazione collettiva al bene comune, che di solito appartiene a ogni popolo, e che ne rafforza l’identità, lo spirito di patria, l’orgoglio nazionale, è da noi flebile al punto di apparire evanescente. Sempre soppiantata dal primato degli interessi parziali.

Gli aggregati sociali minori di cui parlo sono tanti e operano a livelli diversi tra loro e, spesso, si confondono e s’intersecano.

Il primo di questi aggregati è rappresentato sicuramente dalle corporazioni, quelle associazioni che raggruppano e rappresentano le persone che svolgono le stessa professione o lo stesso mestiere, e che trovano la loro origine storica addirittura nel sistema economico della Roma antica.

Da questo punto di vista è come se fossimo rimasti fermi all’Italia dei Comuni, delle arti e dei mestieri. Non c’è, infatti, in Italia professione o mestiere o semplice impiego che non si organizzi in corporazione.

Ed ognuna di queste, grande o piccola che sia, si muove come corpo sociale autonomo e tenta costantemente di concertare con lo Stato le condizioni di massimo vantaggio per sé e per i propri aderenti. Non conta se questi vantaggi sono sostenibili dal paese; non conta se producono a livello complessivo utilità o disutilità sociale. Conta soltanto la difesa del proprio interesse, del particolare.

E’ un corporativismo, quello italiano, che si spinge al limite della polverizzazione. All’interno di ogni categoria apparentemente omogenea, si fraziona ulteriormente in mille rivoli.

Così ogni minima realtà economica e produttiva si aggrega e rivendica il proprio albo, il proprio ordine professionale, la legittimazione, in sostanza, a sedersi al grande tavolo della concertazione, dove poter strappare il proprio brandello di privilegio, le proprie prerogative, dove difendere i propri interessi.

Allo stesso modo, nel mondo del lavoro, in particolare nel settore pubblico, proliferano i sindacati, sigle sempre più improbabili, nate a tutela di interessi sempre più limitati, di gruppi sempre più circoscritti; impegnati soltanto a conservare l’esistente per i pochi che rappresentano, quando questi pochi temono che riforme fatte nell’interesse comune ne possano intaccare i diritti o le prerogative.

E ognuna di queste piccole o grandi corporazioni è pronta a tutto pur di erigere una barriera insormontabile all’intangibilità della propria condizione. Come dimostra la protesta dei parlamentari-avvocati del PDL che, nel mezzo di una crisi economica devastante si dichiararono pronti, in occasione della manovra economica straordinaria del settembre 2011, a bocciare il provvedimento e a far cadere il governo se non fossero state tolte le norme che mettevano mano al loro ordine professionale. Ovviamente le norme furono tolte nel giro di mezz’ora.

Oltre al corporativismo l’Italia resta il paese dei campanili, vissuti a loro volta quale un vero e proprio corpo sociale separato. L’appartenenza a una comunità territoriale locale è spesso percepita come più forte rispetto all’appartenenza alla comunità nazionale. E così, allo stesso modo delle corporazioni, gli appartenenti alle varie comunità territoriali privilegiano il vantaggio locale su quello generale. Come conseguenza affidano la loro rappresentanza politica, al nord come al centro o al sud, non a chi gli garantisce di far funzionare meglio l’Italia, ma di portare più soldi a casa propria.

E’ il caso di quelle logiche di governo clientelare che, purtroppo, hanno svilito il ruolo e la credibilità delle istituzioni e della politica nelle regioni del sud; ma è anche, pur con caratteristiche totalmente diverse, la logica di chi, come il governatore leghista del Veneto Zaia, usa come emblema della propria azione di governo il motto: prima i Veneti. Prima i Veneti nei benefici pubblici, nelle assunzioni, nei diritti.

Non vedo una grande differenza, dal punto di vista dell’interesse generale, tra la logica clientelare del “prima gli amici” e quella, quasi etnica, del “prima i Veneti”. Entrambe negano e contraddicono il concetto di bene comune che risiede sempre, invece, nel “prima i più meritevoli”.

Anche la famiglia, in Italia, tende a porsi come un corpo sociale portatore di interessi distinti e spesso in contrasto con quelli della collettività.

Non è un paradosso. La particolare centralità del ruolo della famiglia nel nostro paese, che pure ne costituisce senza dubbio un pregio e un elemento di straordinaria forza e coesione, tende, qualora non sorretta da un forte senso civico, ad assumere aspetti e comportamenti a volte antisociali.

Edward C. Banfield nel suo libro “Le basi morali di una società arretrata”, edito in Italia nel 1976, definisce questo fenomeno come “familismo amorale”.

Una concezione estremizzata dei legami familiari va a danno dell'interesse collettivo, e spinge a massimizzare unicamente i vantaggi materiali di breve termine della propria famiglia. La giustificazione etica di questo comportamento sta nel presupporre che, tanto, tutti gli altri si comportano allo stesso modo.

L'amoralità non è, quindi, relativa ai comportamenti dei singoli individui, né ai comportamenti interni alla famiglia, ma all'assenza di etica pubblica, all'assenza di relazioni morali a livello di collettività.

Per intenderci, ancora una volta, è il principio per cui si condannano le raccomandazioni, ma solo quelle degli altri. L’evasione fiscale, ma solo quella degli altri. La violazione delle leggi, ma non la propria. Il tutto con l’auto-giustificazione del: tanto fanno tutti così.

Faranno anche tutti così ma, intanto, il paese va a rotoli. Ciascuno rema in una direzione diversa dall’altro. Manca un progetto comune e nessuno si assume la responsabilità di dirlo.