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Informazione non fa rima con politica

Il tema di una nuova politica, di un nuovo sistema di valori, dell’affermarsi di una forte etica pubblica, si saldano direttamente con quello dell’informazione e con il tema ulteriore della libertà e delpluralismo dell’informazione, a partire da quella televisiva, che è quella di gran lunga più incisiva e pervasiva.

Nelle democrazie odierne esiste, tra libertà e informazione, tra democrazia e opportunità di accedere alla piena conoscenza dei fatti, un nesso assolutamente vitale. Non vi può essere vera libertà e pienezza di vita democratica se non all’interno di un sistema dove l’informazione sia realmente libera e plurale.

L’informazione non è più solo un servizio o un’attività d’impresa ma è diventata una funzione fondamentale per la democrazia. Al pari del Parlamento, del governo e del potere giudiziario, l’informazione contribuisce oggi a definire l’essenza stessa delle democrazie parlamentari.

E’ questa la ragione per cui, al pari degli altri organi essenziali dello Stato, anche l’informazione deve essere inserita in Costituzione e da questa disciplinata nei suoi tratti essenziali, non per esserne limitata ma, al contrario, perché ne vengano costituzionalmente garantite le forme di una piena libertà e indipendenza.

Spetterà poi alla legge ordinaria dare concreta attuazione al dettato costituzionale ma, in questo modo, si affermerà un principio fondamentale e non negoziabile, e si sottrarrà la disciplina concernente la libertà dell’informazione alla mutevolezza degli equilibri politici e di governo.

La costituzionalizzazione del principio di libertà ed indipendenza dell’informazione renderà in primo luogo ineludibile da parte del legislatore prevedere un sistema ferreo di garanzie, all’interno del quale media e politica vivano un regime di piena separazione, sia soggettiva che oggettiva.

Le fondamentali funzioni costituzionali infatti si giustificano in quanto distinte e separate, in quanto ciascuna di esse rappresenta rispetto alle altre un potere di controllo; sono, ciascuna, parte di un complesso sistema di pesi e contrappesi.

Sotto il profilo della separazione soggettiva tra politica e informazione, sarà quindi inimmaginabile concentrare in un soggetto, che già detenga il potere legato all’informazione (come proprietario, amministratore o socio qualificato di un qualunque media), la contemporanea titolarità di un’altra funzione costituzionale.

Questo significa, innanzitutto, prevedere l’ineleggibilità a cariche elettive o di governo, di chi abbia tali funzioni in un media operante allo stesso livello territoriale e dimensionale del collegio elettorale o dell’ambito della carica di governo.

Non è un problema di persone o contro le persone, è un problema di funzioni essenziali dell’ordinamento democratico.

Quanto alla separazione oggettiva, significa invece creare le condizioni perché la proprietà dell’informazione oltre che distinta soggettivamente dalla politica sia anche neutra dal punto di vista del proprio interesse imprenditoriale rispetto alle scelte della politica.

Il che presuppone che, nel nostro Paese, si passi dall’ odierna totale promiscuità, ad una condizione in cui, a fare informazione, siano editori puri, che abbiano nell’editoria il proprio interesse economico preminente.

Questo varrà ad evitare che la proprietà dei mezzi d’informazione diventi uno strumento usato da grandi gruppi imprenditoriali, non per fare impresa attraverso un buon giornalismo o una buona informazione, ma per mettere l’informazione da loro controllata a disposizione delle forze politiche di riferimento in cambio dei favori della politica lì dove sta il vero cuore del loro business.

In questo modo si potrà dar vita ad un sistema nel quale le scelte editoriali di giornali, televisioni e radio rispondano a logiche giornalistiche e non, direttamente o indirettamente, a direttive o ad interessi di provenienza politica o partitica.

L’obiettivo andrà cercato a partire dal servizio pubblico, dove è necessario mostrare ai partiti la porta, affinché si accomodino verso l’uscita.

Le proposte per uscire dal ginepraio di una RAI che è l’ente più lottizzato d’Italia, sono tante e molte di queste sono serie. Alcune ne prevedono la privatizzazione, altre puntano a mantenere unservizio pubblico magari con meno reti di oggi

Personalmente credo che l’esistenza di un servizio pubblico, non legato esclusivamente alle ragioni commerciali del profitto e dell’audience, sia un tratto di straordinaria ricchezza democratica e culturale per il Paese e che, pertanto, almeno una o due reti pubbliche andrebbero mantenute.

Detto questo io vorrei semplicemente di dimostrare che di proposte capaci di liberare la RAI dal pugno ferreo e opprimente della politica, pur mantenendo in vita il servizio pubblico, ce ne sono e sono facilmente attuabili; anche se, senza una forte pressione dell’opinione pubblica, difficilmente la politica rinuncerà ad un così grande potere sul quale è riuscita a mettere le mani.

La proposta che più mi pare aver colto l’obiettivo di garantire una gestione che sia al tempo stesso pubblica, trasparente e apartitica della Rai è quella che prevede di trasferirne la proprietà azionaria dal Ministero del Tesoro ad una apposita fondazione, sul modello di governance delle banche.

Tale fondazione dovrebbe essere retta da un consiglio di 15 componenti che restino in carica per almeno 5 anni e che siano nominati da una pluralità di enti diversi.

Tre dal Presidente della Repubblica, tre dal Parlamento, tre dalle associazioni dei consumatori maggiormente rappresentative, tre dalla Conferenza dei Rettori delle Università Italiane, tre dall’associazione nazionale dei giornalisti.

Il consiglio della Fondazione, in quanto proprietario della RAI, nominerebbe a sua volta il Consiglio di Amministrazione o l’Amministratore Unico dell’azienda.

Per poter essere nominati nel Cda RAI dovrebbero inoltre essere fissati rigorosi requisiti di professionalità, moralità, e indipendenza, oltre al fatto di non aver ricoperto, negli ultimi dieci anni, ruoli o incarichi politici o di governo.

Questo sistema garantirebbe competenza nel Cda, ponendo un filtro attento sui requisiti per poter essere nominati. Garantirebbe indipendenza, in quanto la provenienza fortemente eterogenea di chi verrebbe eletto nel consiglio della fondazione impedirebbe il formarsi di maggioranze politiche.

Si aprirebbe così la strada ad una RAI dove possano finalmente affermarsi le tante e straordinarie professionalità che hanno scelto la libertà ma pagano il prezzo del mancato apparentamento politico.

Un sistema dell’informazione che risponda a queste semplici ma fondamentali regole non solo sarà una ricchezza per la democrazia e per il pluralismo politico e culturale nel nostro Paese ma significherà anche un giornalismo che, finalmente liberato dalle catene di interessi impropri, potrà tornare ad essere cane da guardia (e non cinghia di trasmissione) della politica.

In questa sua veste potrà svolgere un fondamentale ruolo nel contribuire a ridefinire e ad imporre all’intero Paese, a partire dalla sua classe dirigente, un intero sistema di valori etici, di vincoli di legalità e di moralità. Attraverso la scoperta e la denuncia delle degenerazioni del potere, dei casi di malaffare, attraverso la pubblica condanna dei comportamenti eticamente deprecabili, sarà possibile porre le fondamenta di una nuova coscienza civica che si dovrà estendere all’intero paese e che porti a realizzare anche in Italia quello che vige in tutte le grandi democrazie occidentali.

Quel sistema di valori, di vincoli e divieti che sta a metà tra la coscienza del singolo individuo e la legge dello Stato; che non è scritto se non nella coscienza collettiva di un popolo ma che, non meno della legge, è avvertito come vincolante e che si chiama: etica pubblica. Da lì potremo davvero pensare di rimettere il paese nella giusta direzione.

Ma l’informazione, per quanto libera, resta comunque uno strumento da maneggiare con cura. La televisione rappresenta un poderoso e solo parzialmente controllabile strumento di convincimento di massa che, anche grazie all’affinarsi delle tecniche di comunicazione, è in grado di condizionare il formarsi della pubblica opinione in una molteplicità di campi. Dalla creazione di bisogni, all’orientamento politico, alla definizione di schemi culturali e di un sistema di valori, l’informazione televisiva ha una pervasività che apre alle moderne democrazie sfide fino a pochi decenni fa del tutto inedite.

Il fatto di scegliere all’interno dei contenitori destinati all’informazione quali notizie dare e quali no, in quale ordine, per quanti giorni, che rilevanza dare ai vari contenuti, quali personaggi trasformare in protagonisti e quali in comparse. Utilizzare le trasmissioni ricreative per dare voce ad un ipotetico senso comune che in realtà tale non è ma, anzi, è il frutto di un’attenta regia politica. Questi e tanti altri ancora sono i modi attraverso i quali l’informazione televisiva può incidere sulle opinioni politiche dell’elettorato. Per questo l’analisi del rapporto tra televisione e democrazia, tra informazione e consenso, dovrà essere un tema oggetto di continua rivisitazione e di una disciplina capace di adeguarsi continuamente a sfide sempre nuove.