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Se il disoccupato diventa rassegnato

A dare dell’Italia un’immagine oscurata e sbiadita non è solo la bocciatura da parte delle agenzie di rating, non è solo il debito pubblico che prosegue, inarrestabile, la sua sfrecciata e non sono solo i dati sulla disoccupazione. Apprendiamo che nel 2010 un giovane su cinque, tra i 15 e i 29 anni, non solo non lavorava, ma era anche fuori dal circuito formativo. Il dato, fornito dall’Istat, consegna all’Italia un drammatico secondo posto in Europa, dietro alla sola Bulgaria.

E non è tutto. Preoccupanti sono anche i dati di quanti abbandonano gli studi: il 19 per cento dei ragazzi lascia la scuola prima del tempo. Tutto ciò è desolante ed apre uno scenario cui speriamo di non doverci abituare. Un conto è la disoccupazione. Un altro conto è la rassegnazione alla disoccupazione ed ancor peggio all’ignoranza.

Ciò vuol dire che i giovani masticano tanti e tali segnali fortemente negativi da non digerirli più, da non sopportarne più il peso, da gettare la spugna. Così si evitano anche la fatica di tentare. Tentare di crearsi una cultura, di trovarsi uno spazio nella società, di portare avanti una passione o anche solo una speranza. Da politico mi sento di dire che questo è uno dei segnali più allarmanti di un periodo in cui gli allarmi in materia economica già non mancano. Questo è un campanello d’allarme che tocca la sfera del sociale. Se da una crisi economica si può anche uscire, da una crisi che tocca la sfera sociale è molto complicato venir fuori. Per uscire dalla crisi economica ci vuole del tempo, molta determinazione e diversi cambiamenti radicali da fare pian piano per dare modo ai cittadini di assimilare i mutamenti. Uscire da una crisi che da economica diventa sociale e culturale, trovarsi, cioè, a dover gestire un Paese economicamente  impoverito e culturalmente degradato sarebbe davvero impossibile.