settembre 2009

Intervista rilasciata a L’Unità

 

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Pubblico una mia intervista apparsa ieri su “l’Unità”. Vorrei conoscere la vostra opinione in merito.

 

“Il Pd è il nostro alleato naturale, ma non ci deve considerare residuali”

 

L’unica collocazione possibile per l’Idv, “oggi, domani e sempre” è nel centro sinistra. A livello locale come a livello nazionale, con un’unica pregiudiziale: “La massima serietà nella scelta dei candidati”. Massimo Donadi, capogruppo Idv alla Camera, toni gentili, parole misurate, non per questo Antonio Di Pietro.

 

Nel centrosinistra per una nuova coalizione, ma alle vostre condizioni.

“Nel centrosinistra sempre – anche se Berlusconi dovesse uscire di scena – e senza venir meno al bipolarismo che non può essere rimesso in discussione. Per  questo abbiamo rilanciano il tema delle alleanze: insieme al Pd vogliamo ricostruire una sinistra moderna e riformatrice che sappia tornare al governo con una proposta concreta e non soltanto perché dall’altra parte c’è Berlusconi£.

 

Intanto però ci sono le amministrative e parecchi problemi in molte regioni. I paletti?

“Siamo convinti che per tornare al governo del paese a partire dalle Regioni non serva soltanto un progetto di contenuti di programma, ma sia necessario recuperare rispetto ad un centro destra che ha dimostrato di avere compromesso una serie di valori etici e morali di riferimento, quella diversità che per tanti anni ha contraddistinto le amministrazioni di centrosinistra”.

 

Tutti uguali?

“Credo che in alcuni casi in questi anni l’idea di buon governo che ha sempre contraddistinto le amministrazioni del centrosinistra sia stata compromessa. Non vogliamo metterci in cattedra e fare i maestrini, ma al Pd diciamo: mettiamoci insieme e ricreiamo questa diversità, ricominciamo a essere la coalizione che mette i migliori amministratori al servizio della collettività, catalizziamo il consenso perché sappiamo gestire il potere riportando il merito al centro. Dobbiamo riaffermare il senso etico di una coalizione di centro sinistra. Il Pd è il nostro alleato naturale, insieme possiamo riuscire nell’impresa. Non escludiamo a priori altre liste, ma a una condizione: chi ha governato male se ne deve andare”.

 

Vendola in Puglia ha governato male?

“Abbiamo dato due giudizi definitivi sulla Calabria e la Campagna. Bassolino e Loiero hanno perso non la fiducia dell’Idv ma di tutti i cittadini campani e calabresi. Quindi vanno mandati a casa, su questo non siamo disponibili a transigere. Sulla Puglia il discorso è aperto, perché abbiamo la sensazione che non sia ancora completamente chiaro se Vendola sia stato vittima di una situazione  a sua insaputa o ci siano anche omissioni a lui riconducibili”.

 

Giorgio Merlo dice “Di Pietro non ha il monopolio della questione morale della politica italiana”. Che gli risponde?

“Non teniamo assolutamente, né lo rivendichiamo. Con altrettanta chiarezza diciamo che non accetteremo di essere una componente residuale dell’alleanza di centrosinistra.

 Siamo convinti che la famosa Unione dove tutto ruotava attorno ad un partito e il resto era un riempitivo per arrivare al 51% non abbia fatto bene al Pd. Soltanto se si accetta questa regola di convivenza comune si può andare avanti e tornare presto al Governo del Paese.

 

I rapporti con D’Alema come vanno?

“Ho la sensazione che l’attuale Pd abbia riunito due culture che hanno sempre ritenuto che al di fuori di loro non ci fosse spazio né dignità per altra politica nel centrosinistra. L’Idv mette a disposizione con umiltà della coalizione il valore della passione, dell’impegno civile, della buona politica e forse varrebbe la pena non sottovalutare tutto questo. Mi è sembrato di cogliere un cambiamento in quello che ha detto Pier Luigi Bersani qualche giorno fa: “Forse in passato nell’immaginare il nostro essere all’interno di una coalizione non siamo stati generosi”.

 

Il grande centro è un’ipotesi realistica?

“E’ un bluff, non c’è lo spazio politico e non ci sono i protagonisti all’altezza di questo progetto. Gli italiani, poi, lo hanno già appoggiato a favore del bipolarismo”.

 

di Maria Zagarelli, 

l'Unità, 21 settembre2009

L’indulto per ladri e mafiosi

i-vitelloni1Il lupo perde il pelo ma non il vizio. Il Governo si prepara a  varare il maxi scudo fiscale, uno scandaloso ed ignominioso indulto finanziario per ladri e mafiosi. Lo scudo fiscale di Tremonti, infatti, coprirà tutti, anche coloro che hanno commesso falso in bilancio ed un'altra serie di reati gravissimi. Basterà pagare il 5% sul patrimonio “scudato” ed il gioco è fatto. Questo indulto fiscale è un insulto, uno schiaffo in faccia a tutti i cittadini onesti che pagano, tra Iva, imposte sul reddito e tasse varie,  il 66% delle tasse sui redditi che guadagnano. Con questo atto, il Governo decide di punire di fatto i cittadini onesti che pagano le tasse e premia  i ladri, i corrotti, coloro che hanno redditi altissimi e che le tasse non le hanno mai pagate. Anzi, fa di più. Il Governo, facendo pagare solo il 5% sui redditi a coloro che hanno evaso, in sostanza lascia loro ingenti risorse da spendere, perché il 5% è una cifra ridicola, una bazzecola che non mette paura a nessuno, specialmente a chi ha fatto dell’evasione fiscale un sistema di vita. Questo è il terzo decreto tombale di Berlusconi in 8 anni e lo Stato non ne trarrà nulla di buono. La lotta all’evasione fiscale, infatti, è una cosa seria che nulla ha a che vedere con una politica palesemente lassista e che premia i furbi e i corrotti. E’ proprio dall’evasione fiscale che si sarebbero potute trarre le risorse per approvare due provvedimenti urgenti e non più procrastinabili per uscire dalla crisi. Innanzitutto, la riduzione delle tasse sul lavoro dipendente e, in secondo luogo, la detassazione degli utili reinvestiti in azienda. Due ricette semplici ma indispensabili che un governo responsabile che difende e tutela le fasce sociali più deboli, i disoccupati, le famiglie italiane, le piccole e medie imprese si dovrebbe impegnare a far approvare. Ma questo è il Governo che protegge e tutela i ricchi, i furbi ed i disonesti.

PUNTATA NUMERO 3. CON IL “VERDE” NON RESTIAMO AL VERDE

foto-ecologiaDa tempo si discute se investire ingenti risorse economiche nella ricerca tesa allo sviluppo di energie alternative sia o meno  un investimento anche economicamente positivo. In particolare, si discute se la maggiore occupazione prodotta dall'investimento nelle energie alternative e che viene genericamente denominata "green jobs", porti effettivamente ad una crescita economica e del mercato del lavoro o se non sia piuttosto un fuoco di paglia. Il ragionamento che fanno i detrattori è che se per ottenere un certo ammontare di energia inquinante basta il lavoro di una persona, e invece per ottenere la stessa quantità di energia pulita sono necessarie due persone, l'utilizzo di energia ecologica alla lunga provocherebbe disoccupazione perchè il costo dell'energia pulita sarebbe troppo alto e porterebbe a una contrazione della domanda. Sicchè l'aumento dell'occupazione sarebbe soltanto temporaneo e illusorio. Ebbene, un recente studio del Peterson Institute of International Economics dimostra l’esatto contrario partendo da una semplice domanda: se i soldi stanziati con il pacchetto “verde” americano venissero spesi in modo differente, quale sarebbe l'impatto sull'occupazione? I risultati sono sorprendenti: un miliardo di euro speso in energia pulita creerebbe circa 30.000 posti di lavoro all'anno contro i circa 25.000 posti di lavoro che si avrebbero con lo stesso miliardo speso per la costruzione di strade. Dunque, investire nell’industria verde non solo fa bene all’ambiente ma anche all’economia. Inoltre i “green jobs” presentano altri straordinari punti di forza: permettono di riassorbire parte della crisi occupazionale che colpisce settori più tradizionali dell’economia; hanno un valore intrinseco di tutela ambientale; permettono indirettamente una redistribuzione di risorse a favore delle generazioni future. Altro che nucleare, dunque. Le fonti rinnovabili svecchiano il sistema, rilanciano l’economia, creano nuovi posti di lavoro e fanno bene all’ambiente. Cosa aspettiamo?

ANNO NUOVO, BLOG NUOVO, PER DIRE STOP ALLA DEMAGOGIA POLITICA. PUNTATA N.1: LE GABBIE SALARIALI

bossi-e-le-gabbie-salariali A settembre, come ogni anno, parte una nuova stagione della nostra vita politica e, come si suol dire, stagione nuova…blog nuovo. Scherzi a parte, settembre vedrà molti cambiamenti per questo blog, che è ancora piccino, ma sta crescendo vorticosamente, con il contributo di tutti voi. Pensate che a luglio siamo arrivato a 154.000 accessi. Da fine mese sarà pronta la nuova veste grafica del sito, con una rinnovata piattaforma, più professionale. Ma, soprattutto, ho intenzione di dedicare molto più spazio ad interventi che siano di proposta sui temi caldi dell’agenda politica del nostro paese: dall’economia, al lavoro, al welfare; contribuendo sempre più a delineare un profilo di Italia dei Valori come forza riformista alternativa di governo. Quello che non cambierà è la mia filosofia di fondo. Questo blog resterà un luogo dove parlare con schiettezza, dove dire le cose perché sono vere e non perché fanno piacere. Dove affrontare temi anche spinosi e che dividono, accettando le osservazioni e le critiche più dure. Quello che non sopporto di tutta la politica italiana è che si trattino gli elettori come due contrapposte tifoserie di “ultras”, accendendone gli animi con demagogia e parlando di tutto con straordinaria superficialità ed incompetenza, rincorrendo soltanto un facile consenso da “stadio”. Per questa ragione inizio la nuova stagione con un testo non mio, ma che ho molto apprezzato e condiviso. Un testo che rende chiaro quanto la proposta lanciata dalla Lega durante il mese di Agosto, quella sulle gabbie salariali, fosse solo uno slogan per superare la mancanza di argomenti tipica della stagione estiva. Il testo in questione, di cui vi propongo un’ampia sintesi, è stato scritto dal Professor Sandro Brusco, docente di Economia all’università di New York ed animatore di un blog di giovani economisti italiani che insegnano negli Usa. Il loro sito si chiama noisefromamerika.org ed è un interessante punto di vista sulla politica e l’economia del nostro paese. LINK: FILE PDF DELL'ARTICOLO DEL PROF. SANDRO BRUSCO

Il megafono delle bugie

megafonoChe sia in pericolo la libertà di stampa è una barzelletta raccontata dalla minoranza comunista e cattocomunista e dai suoi giornali, che sono il 90% della stampa. Per loro la libertà di stampa è libertà di insulto, mistificazione, diffamazione. Sono stato costretto a rivolgermi alla magistratura per stabilire un principio importante, che la libertà di stampa non è libertà di insulto". Sono parole di Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio, proprietario di tv private e giornali, controllore della Rai, tycoon dei media. La strategia di Berlusconi è chiara: ripetere ed amplificare un messaggio palesemente falso sino a farlo diventare reale per milioni di cittadini che non hanno accesso ad una informazione libera. E´ una strategia vecchia, ben conosciuta ed adoperata dai regimi totalitari nell’ultimo secolo. Una strategia che non possiamo e non dobbiamo sottovalutare. Da oggi tutti i mezzi di comunicazione divulgheranno la parabola di Silvio, daranno spazio alla tesi dell’informazione controllata da comunisti e cattocomunisti. In una qualsiasi democrazia occidentale un simile leader politico non verrebbe neanche preso sul serio. In Italia è il capo del governo. Anche perché controlla direttamente o indirettamente televisioni e giornali. Sono molti i giornalisti servili e pronti a dare in pasto agli italiani la verità del messia Berlusconi. Senza contraddittorio. Le voci delle opposizioni, in particolare quella dell´Italia dei Valori, sembrano essere sparite nel nulla. Ridotte a una voce fuori campo, fuori da un contesto credibile. Per questo la manifestazione del 19 sulla libertà d’informazione assume un significato ancora più importante per la nostra democrazia.

ANNO NUOVO, BLOG NUOVO, PER DIRE STOP ALLA DEMAGOGIA POLITICA. PUNTATA N.2: IL WELFARE DELLE DONNE

 

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Il lavoro e il welfare delle donne. Temi spesso al centro dello scontro politico, ma difficilmente affrontati fuori dalla retorica e dalle frasi di circostanza.

E’ successo anche in occasione del recente dibattito parlamentare per l’approvazione della norma proposta dal governo che ha elevato,  nel solo pubblico impiego,  l’età pensionabile delle donne da 60 a 65 anni. In questa circostanza credo che, ancora una volta, il centrosinistra si sia lasciato sfuggire una vera sfida riformista e di questo vorrei confrontarmi con voi.

L’iniziativa del governo prendeva a pretesto una procedura di infrazione aperta dall’Unione Europea all’Italia per il differente trattamento pensionistico tra uomini (che vanno in pensione a 65 anni) e donne (che vanno in pensione a 60 anni) e chiedeva all’Italia di uniformare la normativa. Dico che è stato un pretesto, perché il governo aveva bisogno di rastrellare quattrini e non gli è parso vero di avere una scusa per mettere le mani sulle pensioni delle donne, e fare cassa. Mentre, invece, le procedure di infrazione che non gli fanno comodo (vedi Rete 4) restano nel cassetto per lustri.

Ora che la breccia è aperta, credo non ci vorrà molto perché dal pubblico impiego si passi ai 65 anni anche nel settore privato e se, a farlo, sarà questo governo, ancora una volta farà soltanto cassa a spese delle donne.

La sinistra riformista, a mio avviso, avrebbe dovuto accettare la sfida dell’equiparazione della pensione a 65 anni per tutti, sia nel pubblico che nel privato, ma avrebbe al contempo dovuto affermare con forza che quei soldi risparmiati sono e devono restare delle donne.

Oggi in Italia l’occupazione femminile supera di poco il 40%, ed è quasi del 20% inferiore alla media dei paesi europei più progrediti. Non solo, gli stipendi delle donne  sono in media del 20-25% inferiori a quelli degli uomini nel settore privato. E questo è dovuto soprattutto al fatto che lo stato scarica sui privati (donne e imprese) il costo sociale della maternità e del ruolo che la donna svolge all’interno della famiglia.  Per cui è evidente che all’impresa il lavoro femminile “conviene” di meno.

La pensione a 60 anni remunera la donna di tutti questi svantaggi, ma forse non lo fa nel modo più giusto.

Innanzitutto perché non è uno strumento “inclusivo” di equità sociale: se ne avvantaggia cioè soltanto quel 40% di donne che lavora, non serve a portare più donne nel mondo del lavoro. Inoltre interviene a posteriori, non nella fase della vita in cui una donna spesso cumula sulle sue spalle il triplice ruolo di lavoratrice, madre e di conduzione della famiglia.

Con i risparmi derivanti dall’innalzamento dell’età pensionabile è invece ancora possibile istituire, sul modello di paesi come Germania, Francia  e paesi del Nord uno stato sociale che accompagni la famiglia nella fase della maternità.

Penso ad una rete di asili nido davvero capillare (oggi coprono solo il 10% della domanda) che facciano orari sovrapponibili a quelli di lavoro.

Penso a contributi statali per costruire asili nido aziendali  nelle medie e grandi aziende

Penso ad un ampliamento del tempo di congedo per maternità.

Penso all’ipotesi di potersi avvalere (obbligatoriamente per il datore di lavoro) del part – time nel primo anno di vita del bambino prevedendo agevolazioni contributive per l’azienda.

Penso ad un assegno integrativo del reddito familiare, per uno o due anni, per quel coniuge che decide di abbandonare temporaneamente il lavoro per seguire un neonato, prevedendo altresì agevolazioni per le aziende che poi riassumono il coniuge che rientra nel mercato del lavoro.

Sono tutte misure che avrebbero effetti straordinari sia sulle famiglie sia sull’economia del paese. Porterebbero molte più donne a lavorare (e si tratta di donne che spesso hanno un alto titolo di studio e potrebbero  ricoprire alti profili professionali), nascerebbero più figli, risollevando una curva demografica che nel nostro paese è miseramente piatta. Creerebbero più crescita e più occupazione. Tenderebbero a ridurre le differenze salariali tra uomo e donna.

Si tratterebbe insomma non solo, come oggi, di riconoscere un vantaggio a quella minoranza di donne che ha lavorato, ma di creare un vero e proprio investimento sociale a vantaggio di tutte le donne e della società italiana nel suo complesso.

Fini ora dica no a videocrazia imperante

silvio-berlusconi-vespa  Fino a due mesi fa pensavo che Gianfranco Fini, nell’eterno gioco dei buoni e dei cattivi, svolgesse il ruolo del poliziotto buono e Berlusconi quello del poliziotto cattivo ma che, in realtà, fossero le facce di una stessa medaglia. Su questo tema ci ho fatto pure un post. In queste ultime settimane, tuttavia, qualcosa è cambiato e sarebbe scorretto non prenderne atto. Il presidente della Camera ha infatti dimostrato una determinazione e una coerenza sorprendente. Ha alzato il tono del confronto, ha smosso le acque nel suo schieramento politico, ha messo il dito nella piaga, ovvero, in quel cesarismo dilagante che caratterizza ormai il centrodestra, ha sferzato l’alleato storico, ha risposto con parole chiare ed inequivocabili alle domande sui temi etici per i quali i politici sono soliti usare infiniti giri di parole per approdare al nulla. Ha mostrato, insomma, un’onestà intellettuale di cui gli va dato atto e per la quale sta già pagando il conto, arrivato puntuale sul suo tavolo sotto forma di editoriali infamanti pubblicati dai giornali di famiglia del premier. Ora, però, resta un ultimo ma decisivo passaggio. Se davvero Gianfranco Fini ha intenzione di fare sul serio, e di riportare la democrazia nello schieramento di centrodestra, deve combattere a viso aperto questa ormai imperante videocrazia, che ha annullato il confronto politico e ha ridotto la politica ad uno spot vuoto e fasullo. Deve pronunciarsi con chiarezza e passare, un minuto dopo, dalle parole ai fatti. Chi, come il presidente della Camera, ha conosciuto entrambe le stagioni, ovvero quella dell’oro, che gli ha permesso di abbeverarsi all’impero mediatico di Berlusconi, e quella del piombo, ovvero della cacciata dall’Eden perché divenuto scomodo, sa bene di cosa parlo. Passare dalle parole ai fatti significa dire no a questa videocrazia spregevole; significa contribuire concretamente a ripristinare i livelli minimi di terzietà della comunicazione; significa favorire in Parlamento una seria legge sul conflitto di interessi che ponga rimedio a questo fascismo mediatico prima che sia troppo tardi; significa prendere una posizione netta ed inequivocabile a favore del pluralismo dell’informazione; significa, insomma, contribuire ad improntare un complesso di regole che ponga una barriera invalicabile tra potere politico e potere dell'informazione. Lo scatto di reni del presidente della Camera è encomiabile, ma ancora non basta. Oggi, chi davvero ha a cuore il futuro della nostra democrazia, a qualsiasi schieramento appartenga, deve aver il coraggio di battersi al di la di ideologie e di schieramenti politici per mettere al centro dell’agenda politica italiana l'approvazione di una legge sull'informazione che stronchi definitivamente la videocrazia imperante.  Da questo capiremo se davvero, per un futuro non troppo lontano, nel nostro paese si può sperare in un ritorno alla normalità democratica.

Berlusconi sul viale del tramonto

dittatoreLa propaganda di Berlusconi perde colpi. “L’onore e il rispetto”, la fiction andata in onda sull’ammiraglia di casa sua, ha battuto negli ascolti la puntata speciale terremoto di Porta a Porta a reti “oscurate”. Il tonfo clamoroso di ascolti non è un caso. E’ il segnale che qualcosa sta cambiando, è la prova che il declino di Silvio Berlusconi è iniziato. La ripresa identitaria di Alleanza nazionale, la Lega che alza sempre di più il tiro di fronte ad  un premier ormai cotto, la rivolta del governatore del Veneto Galan e questo clima da grandi manovre che si respira, sono i segnali evidenti che la parabola discendente del premier è cominciata. Ma non illudiamoci. Berlusconi non starà li a guardare il mondo crollargli addosso. Più sentirà il potere sfuggirgli di mano, più sarà spietato. Come un lupo braccato morderà inferocito. Gli ultimi mesi del suo governo saranno i peggiori della storia della Repubblica. Verranno tempi cupi, come gli ultimi di Hitler, dove i dossier al veleno di Feltri e i Porta a Porta di propaganda, saranno solo un pallido ricordo. Berlusconi non è un politico. Non ha e non ha mai avuto il senso delle istituzioni. Non ha quei valori che caratterizzano un vero servitore dello Stato, né tantomeno la caratura di uno statista. E’ un imprenditore spregiudicato, un tycoon pieno di sé, assetato di potere, che ha usato la politica, lo Stato e le istituzioni per uscire dai suoi guai giudiziari, per coprire le sue nefandezze. Ha un solo motto ed un solo credo “Io sono il miglior presidente degli ultimi 150 anni. Dopo di me il deserto”. Per questo, come un leone vecchio e malato allontanato dal branco, colpirà senza pietà e con ogni mezzo chiunque oserà mettersi di traverso, chiunque oserà sbarrargli la strada. La sua uscita di scena non sarà indenne. Userà ogni mezzo per non far spegnere l’ultimo riflettore sul suo viale del tramonto. Sono profondamente convinto che toccherà prepararsi al peggio. Ma dopo ogni Medioevo ci sarà il Rinascimento. Noi siamo pronti sin da ora a gettare le basi per una politica che si metta finalmente al servizio del Paese.