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ll canto delle poltrone Vinca il peggiore», è l’incauto slogan della “polisportiva parlamento”. Chi è disposto a cambiare casacca, ad allearsi col più forte, a garantire il suo piccolo “sì” diventato, improvvisamente, importante, viene premiato. Quattro posti da sottosegretario, due da viceministro. Il canto ammaliante delle poltrone invita al tradimento, al servilismo, alla sudditanza. Viaggiano, i vincenti, con un bagaglio leggero: poche idee, nessuna convinzione, cultura di minimo spessore. Marciano spediti verso la meta. Senza l’impaccio della coerenza che rallenta il passo. Occuperanno stanze importanti, le avranno conquistate offrendo il proprio voto per turare la falla aperta nella barca del Governo dalla ribellione dei finiani. Saranno competenti? Sagaci? Svegli? Chissà, raccomandiamoci alla buona sorte, potrebbero anche essere delle zucche vuote, dei caproni totali. Che ne sappiamo noi, di questi professionisti della politica, cresciuti nel chiuso delle segreterie. Potrebbero essere dei geni, ma anche no. Se il criterio per assegnare posti di responsabilità non è il merito, né il valore bensì l’utilità numerica, il banale conteggio delle forze schierate in un campo o nell’altro, noi cittadini abbiamo diritto ad avere paura. Di tutto: di ammalarci perché magari il medico a cui affideremo la nostre speranze di guarigione è stato messo a capo di quel reparto per motivi clientelari. Della crisi perché magari il prossimo ministro dello Sviluppo è uno che non capisce una mazza di economia ma può risolvere una situazione al Premier. Mette ansia questo sovvertimento profondo della cultura del merito: i più vecchi oscillano fra indignazione e rassegnazione, i più giovani, fra rassegnazione e disperazione. Come il brillante ventisettenne, due lauree e un dottorato, che si è ucciso l’altro ieri. Buttandosi dalla finestra dell’Università.