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ALEMANNO RIMPASTA E FA SPAZIO ALLA CRICCA

 Alemanno di nome, Retromanno di fatto. Ai romani il patto della pajata proprio non è andato giù. Il sindaco di Roma crolla a picco nei sondaggi e, nella classifica dei sindaci più amati d’Italia, sfiora l’ultimo posto, mentre svettano in cima Chiamparino e Renzi. Lo spettro del buco in bilancio, gli scandali di Parentopoli, le assunzioni facili alle municipalizzate Atac ed Ama, pesano come un macigno sulla già pallida gestione del sindaco di Roma. Come se non bastasse, la Capitale è diventata un suk per colpa di una giunta che non decide più nulla, paralizzata come è dalle lotte intestine tra gli ex forzisti e il sindaco, accusato di favorire i colonnelli azzurri a scapito della corrente azzurra. Il riflesso evidente e condizionato di quello che sta avvenendo a livello nazionale. Insomma, ce ne è quanto basta per andare a casa. Non solo una gestione a dir poco trasparente, ma una situazione di preoccupante stallo per via di una maggioranza che oggettivamente non c’è più. Un sindaco serio, che ha a cuore gli interessi della città che amministra, di fronte a questo quadro, avrebbe dovuto fare l’unico passo conseguente, ovvero, dimettersi. Invece no, Ieri, Alemanno ha messo in atto la vecchia pratica del rimpasto: dura lex sed lex, ovvero, si risciacquano in panni nel Tevere e via, verso nuovi meravigliosi fallimenti. La mission del sindaco è duplice: rimanere in sella alla poltrona di primo cittadino ma soprattutto rimuovere dalla memoria dei romani lo scandalo di parentopoli che lo ha travolto insieme alla sua giunta. Alemanno ha commesso due peccati capitali. In un batter d’ali, ha riportato Roma indietro nel tempo, ai tempi della prima Repubblica, non quella di Pompeo e Silla, ma quella ben più miserevole di Sbardella, lo squalo capo corrente della dc andreottiana. Per farlo, si è persino consultato con l’oracolo delle Sibille Cumane del Pdl, i capigruppo Gasparri e Cicchitto. Il secondo peccato, ben più grave del primo: accettare di nominare come vicesindaco Guido Bertolaso, l’integerrimo servitore dello Stato, l’uomo della Protezione civile, con il vizietto degli appalti d’oro da distribuire equamente tra parenti ed amici ed i massaggini rilassanti della brasiliana in topless Monica. Dicono che in cambio di un Bertolaso vicesindaco oggi, ad Alemanno sia stata promessa la poltrona da vicepremier accanto a Silvio domani. Dicono. Per ora sono solo chiacchiere. Bertolaso mio vice? E' pura fantasy, dice oggi il sindaco. Staremo a vedere. Una cosa è certa: con Bertolaso, a Roma di Capitale rimarrà solo il vizio.

PAROLA D'ORDINE: RINNOVAMENTO

Stretta di mano Berlusconi-D'Alema nel 1995Stretta di mano Berlusconi-D'Alema nel 1995Venerdì prossimo prenderà il via “Prossima Fermata Italia”, la tre giorni organizzata a Firenze da Matteo Renzi, Pippo Civati e Deborah Serracchiani. Dell’iniziativa non mi interessa il tratto polemico tutto interno al PD che, detto con franchezza, riguarda loro e solo loro. Mi interessa, invece, l’affermazione di un principio di fondo che trovo pienamente condivisibile e non rinviabile: l’Italia è un paese di “inamovibili”, un paese dove chi arriva a detenere un ruolo di potere pubblico, vi rimane incollato per interi decenni. Sembra quasi un tratto culturale e fondativo della nostra società ed emerge in tutti i settori della vita pubblica. Dai baroni universitari ai politici ai gran commis di Stato, chi sale ai vertici tende a creare intorno a sé un sistema di “potere a vita” dove anche il successore viene scelto per cooptazione, quando non addirittura per scelte di tipo familistico. Il problema è che una gestione delle funzioni pubbliche basata sulla inamovibilità ha riflessi enormi sulla vita pubblica, sulla qualità delle stesse funzioni esercitate  e sul livello etico complessivo del paese. Non è una questione anagrafica. Non si tratta di un generico o qualunquistico “largo ai giovani”. L’importante è che si affermi un principio che considero di “igiene sociale”, quello per il quale le funzioni pubbliche apicali sono temporanee e l’alternanza nelle responsabilità è una ricchezza democratica. Chi fa il parlamentare, il ministro, il capo di un partito piuttosto che il presidente del consiglio lo fa per un periodo limitato di tempo, dopodiché lascia il posto ad altri. Non amo la facile demagogia, ma nell’esercizio di una funzione pubblica non c’è niente di peggiore dell’identificazione tra una persona e la funzione stessa. Il ricambio della classe dirigente è un valore in sé, perché anche il migliore statista al mondo, nel tempo, diventa ostaggio della sua storia, delle scelte compiute, delle persone frequentate, che pesano sulle sue azioni come palle al piede e lo fanno comunque correre più lentamente di chi, magari, ha meno esperienza, ma è libero da condizionamenti. Spero che il treno della modernizzazione nel paese faccia tanta strada e che anche a Firenze, il prossimo week end, faccia una fermata importante.

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VENDOLA LEADER? SAREBBE SUICIDIO COLLETTIVO

La StampaLa Stampa

Pubblico il testo della mia intervista apparsa oggi su "La Stampa"

Vero che di questi tempi il fantasma delle elezioni anticipate si aggira nei corridoi del Palazzo e per sentirsi pronti alla pugna è difficile prescindere dalla scelta di un condottiero dotato di carisma, perché «oggi la politica si nutre anche di leadership». Però affidarsi a Vendola «sarebbe un suicidio collettivo e dunque non mi sembra una buona idea». Massimo Donadi è un docente di diritto privato prestato alla politica, sempre misurato in tv, ma da buon veneto senza peli sulla lingua e di Antonio Di Pietro è il braccio destro alla Camera. E anche se un anno fa fece la scelta temeraria di smarcarsi da un Tonino ancora paonazzo dopo uno scontro frontale con il capo dello Stato, questa volta il capogruppo dell' Idv ci va giù con mano ancora più pesante. Dopo aver letto l' intervista a La Stampa in cui il suo leader benedice la kermesse di maggio a Firenze con Santoro, De Magistris e Vendola, non riesce più a tenersi. «Io non ci andrò e spero che Di Pietro ci ripensi.
L' immagine che ne viene fuori non è quella di un Idv che viaggia intorno al 10% e che può giocarsi la sua partita dettando temi e regole per costruire una futura coalizione, ma di un partito in difesa nel tentativo di arginare Vendola». Insomma il numero due dell' Idv non ci sta a farsi schiacciare dalla sinistra. «Sarebbe un errore mortale per noi. Vendola è una persona brillante e simpatica, ma per me non potrà essere mai e poi mai il leader della coalizione. E' l' espressione oggi più alta di una sinistra ideologica che non ha ancora fatto i conti con la sua storia, che ha la responsabilità di due fallimenti di governi di centrosinistra con lo slogan di "spendi e tassa". E che non ha capito nulla delle dinamiche della sicurezza e dell' immigrazione. Se Vendola fosse il prossimo candidato premier, potremmo dire di aver creato noi la Padania, perché non è un caso che il suo partito al nord abbia percentuali da prefisso telefonico». Quindi Di Pietro sbaglia su tutta la linea a cavalcare questa operazione? «Penso che lui, che è uomo scaltro e accorto, anche se ha poco da condividere con Vendola, voglia essere vicino a questo mondo in fermento. Un mondo a sua volta vicino ad alcuni settori del partito...». Ecco, anche se sono passati sei mesi dal congresso della "svolta governativa", in cui Di Pietro mise all' angolo il rivale De Magistris, è evidente che la piaga ancora è infetta.
E per Donadi, questo modo di corteggiare i movimenti «è sbagliato perché appare gregario e noi al contrario dobbiamo rilanciare con proposte di ben altro peso e spessore». Allora, visto che tirare la volata a Vendola ha tutto il sapore di uno schiaffo a Bersani, che «produrrà solo l' acuirsi dei conflitti dentro il Pd», per Donadi sarebbe saggio puntare su cavalli che potrebbero avere più gradimento tra le armate dipietriste. «Non si può pensare di costruire una futura coalizione se non partendo dal Pd, pur rivendicando che noi dobbiamo essere competitivi con loro e con la sinistra radicale. E' mai possibile poi che in Italia siamo condannati ad avere candidati premier sempre sulla soglia dei 60 anni? Esistono giovani bravi fuori dal Pd, ma anche nel Pd e penso al sindaco di Firenze Renzi, a Zingaretti, ad Andrea Orlando, a Beppe Civati. Facciamo delle primarie vere e basta con queste alleanze costruite nel chiuso dei laboratori politici che piacciono tanto a D' Alema».

dal quotdiano, La Stampa: www.lastampa.it